Pubblichiamo l’articolo di approfondimento a firma dell’avv. Alessia Perla, pubblicato il 20/11/2019 da Diritto 24, Il Sole 24 Ore in merito all’ultimo intervento di ANAC in tema di Subappalto.
Ancora un intervento in materia di subappalto: l’atto di segnalazione n. 8 del 13 novembre 2019 dell’ANAC alla luce degli effetti delle decisioni pregiudiziali tra necessità e superfluità
a cura dell’avv. Alessia Perla
Con l’atto di segnalazione n. 8 del 13 novembre 2019, concernente la “disciplina del subappalto di cui all’art. 105 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50”, l’ANAC è intervenuta in materia di subappalto, nell’ambito del potere di segnalazione riconosciuto all’Autorità dall’art. 213, co. 3, lett. d), D.lgs. 50/2016.
Il suddetto atto ha quale preciso scopo quello di formulare alcune proposte per sollecitare una urgente modifica normativa inerente la disciplina del subappalto di cui all’art. 105 D.lgs. 50/2016 in esito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) del 26 settembre 2019, resa nella causa C-63/18.
Si tratterebbe, ove la segnalazione fosse accolta, dell’ennesimo intervento (in vista) in materia di subappalto. A tal proposito, si rammenta che – al fine di adeguare la normativa nazionale a quella eurounitaria in materia, soprattutto in seguito alla procedura di infrazione n. 2273/2018 avviata nei confronti dell’Italia- il Legislatore è intervenuto di recente sull’art. 105 del D.lgs. 50/2016 con il D.L. 32/2019 (convertito con modificazioni dalla L. 55/2019). In particolare, la richiamata novella legislativa ha riguardato principalmente due aspetti: (i) innalzamento della soglia del limite quantitativo del subappalto dal 30% al 40% del valore dell’appalto; (ii) la sospensione dell’obbligo di indicare la terna dei subappaltatori per gli appalti di importo superiore alle soglie comunitarie di cui al comma 6 della norma richiamata.
L’intervento della CGUE, richiesto ai sensi dell’art. 267 TFUE dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia – Milano con ordinanza del 13 dicembre 2017, pone l’accento sulla legittimità rispetto al diritto UE della limitazione quantitativa della quota subappaltabile prevista dalla normativa italiana e, accogliendo la questione pregiudiziale circa la compatibilità della normativa nazionale in materia con la direttiva 2014/24/UE, stabilisce che tale direttiva deve essere interpretata nel senso che “osta a una normativa nazionale, come quella italiana, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi”.
L’interpretazione della Corte di Giustizia pone l’accentro soprattutto sull’art. 71 della direttiva 2014/24/UE che non vede limitazioni quantitative alla quota subappaltabile, ma consente che l’amministrazione aggiudicatrice possa chiedere nei documenti di gara- o possa essere obbligata dallo Stato a farlo – che l’offerente indichi nella sua offerta le eventuali parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti.
A tal proposito, il cuore della sentenza è rappresentato dal punto 40 nel quale si precisa che una normativa nazionale, come quella italiana, che prescrive un divieto generale e astratto di procedere al subappalto in una percentuale superiore a una soglia predeterminata aprioristicamente, non lascia alla stazione appaltante alcun margine valutare caso per caso l’opportunità di apportare limitazioni al subappalto ed è quindi incompatibile con la normativa eurounitaria.
La ratio di tale considerazione è esplicitata chiaramente soprattutto nei precedenti punti 28, 29 e 30. Nel primo punto si dà atto della incompatibilità con la direttiva di una normativa nazionale che imponga una limitazione al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso. L’illimitata possibilità di ricorrere al subappalto prevista da normativa eurounitaria in via generale tuttavia, come precisato al punto 29, è attenuata dall’art. 71 della direttiva che riconosce la possibilità di una disciplina più specifica del subappalto, laddove all’amministrazione aggiudicatrice è fatta espressa facoltà di chiedere o di essere obbligata dallo Stato membro a chiedere al’offerente di informarla sulle intenzioni di quest’ultimo in materia di subappalto. Dalla suddetta possibilità, prosegue la Corte al punto 30, non può tuttavia desumersi una facoltà per gli Stati membri di limitare in maniera generale e astratta il ricorso al subappalto mediante l’imposizione di una limitazione quantitativa dello stesso.
Le esigenze di prevenzione degli intenti criminosi, e nello specifico il contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata, argomenti da sempre utilizzati per giustificare la limitazione quantitativa del subappalto, pur essendo riconosciute dalla Corte come obiettivi le
legittimi che possono giustificare una restrizione tanto alle regole fondamentali del TFUE quanto alla direttiva, devono comunque confrontarsi con i principi di parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità, nei confronti dei quali alcuna deroga deve considerarsi legittima.
Inoltre, pur essendo previsto nel corpo della direttiva 2014/24/UE, al considerando 41, la possibilità per lo Stato membro di applicare misure necessarie alla tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici (…) non può ritenersi, che ne discenda sic et simpliciter la possibilità (rectius la doverosità) per lo Stato di imporre limitazioni quantitative in maniera astratta alla quota del subappalto.
E tanto, non solo in virtù della lettera della normativa eurounitaria, quanto anche in relazione agli obiettivi, tra gli altri, di libera concorrenza e massimo favor partecipationis che la normativa eurounitaria si propone di perseguire e di cui il subappalto rappresenta sicuramente uno degli strumenti più idonei.
A valle di tale importante pronuncia della Corte di Giustizia, l’atto di segnalazione n. 8 del 13 novembre 2019 – con il dichiarato obiettivo di “arginare” la situazione di inadempienza dell’Italia nei confronti della normativa sovranazionale – propone una incisiva modifica alla disciplina del subappalto mediante l’eliminazione del limite quantitativo “unico” aprioristicamente prestabilito, in cui viene in linea di principio lasciata alla stazione appaltante la possibilità di adeguare l’istituto in esame al contesto di gara, distinguendo tuttavia tra due situazioni: (i) eventuale subappalto del 100% delle prestazioni oggetto del contratto ovvero di una parte talmente rilevante di esse che, di fatto, la commessa viene svolta sostanzialmente da terzi e non dal soggetto aggiudicatario; (ii) altri casi.
Nel caso sub (i), anche in virtù della richiamata volontà del legislatore di garantire l’esecuzione in proprio dell’appalto, nonché dello snaturamento cui darebbe vita il subappalto dell’intera prestazione ovvero di prestazioni rilevanti, l’Autorità propone la valutazione dell’opportunità del mantenimento del divieto formale o sostanziale di subappalto dell’intera commessa o di una sua parte rilevante. Tale conclusione viene peraltro sostenuta dall’ANAC anche sulla base del richiamo all’interno del par. 2 dell’art. 71 dell’inciso “le eventuali parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi”.
L’ inciso – lungi dal giustificare, contrariamente a quanto sostiene l’Autorità, che in tali casi la regola generale cui attenersi sia quella del subappalto di una porzione e non dell’intera commessa – indicherebbe, anche in ragione di quanto previsto dal considerando 41, che anche in tali casi la limitazione debba essere prevista sulla base di particolari e motivate ragioni e che essa debba comunque essere conforme ai principi del TFUE.
Nel caso sub (ii), invece, l’Autorità ritiene che la regola generale sia quella dell’ammissibilità del subappalto in assenza di limitazioni preventive che saranno invece stabilite caso per caso dall’amministrazione aggiudicatrice in base alle specificità del contesto di gara.
Alla luce di quanto sopra riportato, pur non potendo negarsi la notevole apertura e l’apprezzabile sforzo interpretativo dell’Autorità rispetto al passato in materia di subappalto, occorre tuttavia interrogarsi sulla necessità di un intervento del tipo di quello in esame.
Infatti, non è superfluo ricordarlo, che – come peraltro la stessa ANAC riconosce (cfr. pag. 5 atto di segnalazione) – le sentenze pregiudiziali della Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno carattere immediatamente obbligatorio ed erga omnes. La stessa giurisprudenza costituzionale, con un orientamento ormai granitico, ha avuto modo di affermare che le statuizioni interpretative della CGUE, quali quelle pregiudiziali, sono direttamente applicabili e hanno operatività immediata negli ordinamenti interni (cfr. ex multis, Corte Cost., sent. 113/1985 e sent. 389/1989).
Infatti, le decisioni pregiudiziali spiegano sia effetti endoprocessuali che extraprocessuali. I primi comportano che la decisione pregiudiziale abbia portata vincolante non solo per il giudice del rinvio, ma vincoli anche le giurisdizioni di grado superiore chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa. Conseguentemente, il rifiuto da parte di una giurisdizione nazionale di tener conto di una sentenza pregiudiziale può comportare l’apertura di una procedura di infrazione e, quindi, sfociare nel ricorso di inadempimento ex art. 258 TFUE.
Gli effetti extraprocessuali comportano che la portata della sentenza si spinga al di là del perimetro del giudizio nell’ambito del quale la questione è stata sollevata e ciò sia in virtù del carattere astratto delle sentenze interpretative che, pur originando da una controversia determinata, sono volte a chiarire l’interpretazione e la portata delle norme UE la cui interpretazione varrà anche in altri giudizi in cui la norma interpretata deve essere applicata e sia in ragione dell’obiettivo perseguito dall’Unione Europea di armonizzare l’applicazione del diritto euro unitario. Tale ultimo scopo, invero, sarebbe frustrato se le sentenze interpretative della Corte dispiegassero i propri effetti soltanto nella causa in cui la questione interpretativa è stata sollevata.
Sul punto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha ribadito l’operatività ultra partes delle sentenze interpretative a cui va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario. Ciò non nel senso di creazione ex novo di norme, quanto di delimitazione e chiarimento del significato e dei limiti di applicazione delle stesse nell’ambito dell’Unione Europea.
Alla luce delle considerazioni svolte, fermo restando l’obbligo di adeguamento alla decisione della Corte di Giustizia, possono trarsi due principali conseguenze.
La prima è la superfluità dell’atto di segnalazione dell’Autorità che non mette, e ove non adottato non avrebbe messo, in discussione l’obbligo per lo Stato – e conseguentemente per le amministrazioni aggiudicatrici che dello stesso rappresentano una espressione – di adeguarsi al decisum della CGUE.
La seconda conseguenza, peraltro ai limiti del paradosso, è rappresentata invece dalla circostanza che la possibile adesione alle proposte dell’ANAC attraverso la modifica normativa delle disposizioni interessate rischierebbe, per le criticità sopra evidenziate, di alimentare e non arginare la situazione di inadempienza dello Stato nei confronti del diritto eurounitario.