di Diana Iovanna
Il danno da responsabilità medica e, più in particolare, l’onere della prova dell’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui si chiede il risarcimento, sono stati oggetto di pronunciamento della terza Sezione Civile della Suprema Corte, con la sentenza n. 27449 del 30 ottobre 2017.
Nella vicenda in esame, il Tribunale aveva deciso per il rigetto della domanda di risarcimento del danno patito dal paziente in conseguenza del risveglio involontario dall’anestesia durante un intervento chirurgico, rilevando la “mancanza di certezze” in ordine al nesso causale. La Corte d’Appello di Genova, nella sua pronuncia, aveva riformato la decisione del giudice di prime cure, statuendo che l’incertezza sul nesso eziologico non potesse ricadere sul danneggiato, e che, d’altra parte, non era possibile affermare la riconducibilità dell’incidente alla categoria di eventi rientranti nel fortuito, posta la bassissima incidenza statistica di quest’ultimo.
La decisione resa in secondo grado è stata, quindi, impugnata: il ricorrente ha lamentato che la Corte territoriale avrebbe errato nel ripartire l’onere della prova, nel quadro della ritenuta responsabilità contrattuale, atteso che la dimostrazione del nesso causale tra la condotta del sanitario e il danno del paziente sarebbe gravata sull’attore.
Gli Ermellini – dando seguito al convincimento già espresso, anche di recente, nelle sentenze del 15 febbraio 2018, n. 3704 e del 7 dicembre 2017, n. 29315 – hanno ribadito come “…in tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata causa del danno, secondo il criterio del “più probabile che non”.
Fulcro dell’iter argomentativo il diverso regime probatorio nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale ovvero da fatto illecito, evidenziando che la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sicché la sussistenza della prima non comporta, di per sé, la dimostrazione del secondo e viceversa.
Rileva la Corte come “L’art. 1218 del codice civile, in questo senso, solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento”.
E infatti: «la previsione dell’art. 1218 del codice civile trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente, o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cassazione a Sezioni Unite, 30/10/2001, n. 13533); tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 del codice civile.
Di conseguenza, vale il principio generale espresso nell’art. 2697 del codice civile che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa; ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia all’individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo); trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta.
Neanche può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 del codice civile faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile: infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cassazione 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti “tema di prova della parte debitrice”, e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto”.
Ne deriva, quindi, che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore (rectius: del paziente danneggiato), dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, ove non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda deve essere rigettata.
Osservano ancora gli Ermellini come tale conclusione non si ponga in contrasto nemmeno con i principi enucleati dalle Sezioni Uniti nella nota sentenza n. 577 del 11/01/2008, n. 577, secondo cui «in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante».
Questo principio è stato infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di una emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta del sanitario. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione.